Indice dei racconti | [10] | ||
Alois Braga ha scritto numerosi racconti brevi e un solo romanzo, anche se lui non ha mai osato definirlo tale. Poco prima di morire pubblica on line Aveva quasi smesso di piovere, un racconto lungo a più movimenti: forse il migliore, certamente quello della maturità. Questo racconto è tratto dall'e-book: |
MILO, FIGLIO DI UN SINTI E DI UNA DONNA GAGÈRacconto di Alois Braga
«Perché malgrado l'uomo lo neghi non sa
«Baranzate era un vecchio campo nomadi a nord della periferia di Milano. Il terreno era appartenuto a una fabbrica farmaceutica che era stata insolvente dal momento in cui aveva aperto i battenti, agli inizi degli anni Settanta. Speculazioni sbagliate e una gestione del management a dir poco scandalosa avevano fatto sì che tutti gli operai erano stati licenziati e costretti a sopravvivere con il sussidio della cassa integrazione per parecchi mesi. Alla fine era stato ordinato di smantellare la fabbrica. Per evitare possibili disordini, la chiusura dell'impianto era stata affidata alle forze di polizia locale. I capannoni che ospitavano le macchine e le attrezzature erano stati sbarrati e circondati con il filo spinato, e la palazzina degli uffici svuotata. Qualche mese dopo, una colonia di zingari aveva occupato i capannoni dismessi. E la prima notte, la prima notte che i Sinti avevano passato là, si dice che avevano dato una grande festa, che gli abitanti della zona non avevano mai visto. In quella prima notte, io sono stato concepito sotto le stelle appiccicate a quel cielo straordinario di periferia metropolitana; in compagnia di liberi eroi e suonatori di chitarre e bellissime ballerine di flamenco, attorniato da una folla di bambini e ragazzi e donne anziane intorno al fuoco. Io, figlio di un Sinti e di una donna gagé ». Intanto che Milo mi raccontava la storia della sua vita, non smettevo un attimo di fissare la profondità dei suoi occhi. E Dio sa quanto in quei momenti avrei voluto passargli la mano tra i lunghi capelli corvini allungando il braccio dall'altra parte del tavolo. Ma mi sono trattenuto dal farlo. «Mia madre,» continuava Milo, «mi raccontava spesso di come mio padre aveva ripudiato le prime tre mogli, finendo per fuggire con lei, e di quanto questo aveva fatto inferocire i genitori delle ragazze e la famiglia di mio padre. Il problema vero per mio nonno era la religione, non tanto il fatto in sé, perché situazioni del genere erano piuttosto comuni. Mio padre era musulmano, mia madre cristiana. Dal canto suo, mia madre non voleva neppure sentire parlare di conversione e minacciava mio padre di andarsene senza di lui con me in grembo. A quel punto era avvenuto un miracolo: con le lacrime agli occhi mia madre aveva cantato una canzone triste su una sposa non amata in attesa di un figlio. Mio nonno, il patriarca della comunità - un Sinti purosangue, un uomo robusto di una cinquantina d'anni - non aveva sentito una voce più bella e giurò a se stesso che non si sarebbe lasciato sfuggire un angelo simile. Immediatamente, mia madre era stata accolta come un nuovo membro della famiglia. E nove mesi dopo, sono nato io». All'improvviso Milo si guardò intorno ad osservare la gente che entrava. «Una leggenda zingara...» riprendeva poco dopo, Milo, calcando la voce sulla parola zingara, «racconta che al tempo della creazione a Dio sarebbe piaciuto creare gli esseri umani a sua immagine. Così prese un bel po' di farina e di acqua e li impastò formando dei piccoli uomini, li mise nel forno ma sfortunatamente se li dimenticò. Quando li tirò fuori erano bruciati, così nacquero i neri. Allora impastò altra farina con l'acqua, modellò ancor dei piccoli uomini e li mise in forno. Questa volta, preoccupato che bruciassero, li tirò fuori in anticipo, e questi furono i bianchi. Quando provò per la terza volta creò prima il tempo e l'orologio. Così quando tolse gli uomini dal forno erano cotti al punto giusto, appena bruniti. Questi erano gli zingari». A un tratto mi domandai se era vero quello che mi stava raccontando, oppure se era una cosa inventata sul momento per fare colpo su di me. Però la sua storia mi incuriosiva, mi piaceva stare a sentirlo, e lui aveva un fascino particolare nel raccontarla. E quel suo percorso a ritroso nella memoria suonava come una confidenza che desiderava andare oltre il semplice bere qualcosa insieme. Nel frattempo l'aria sapeva sempre più di mare, di sale e di sole, di spezie, di paesi lontani, di cannella e di sandalo... Sapeva di troppo per non rimanerne sopraffatti. E mi diventava difficile separare l'emozione di quei momenti dall'atmosfera meravigliosa del posto, sospeso su quelle sensazioni tremolanti. Voci e suoni si confondevano fino a sfumare nella calura in un silenzio più vasto, che mi pervadeva e mi intorpidiva. E tutto, tutto aveva il sapore immenso dell'emozione, quel sapore che era entrato in me ed ora mi cullava dentro. Tanto che la cosa più importante al mondo in quei momenti era per me starmene lì, seduto a quel tavolo insieme a Milo, al mio amico non gagé. Ma si faceva sempre più faticoso, tremendamente faticoso continuare ad ascoltarlo senza pensare a decidermi di dichiarare il mio amore per lui; perché di questo si trattava. E all'improvviso mi ritrovai a riflettere su come Milo avrebbe potuto reagire, su cosa avrebbe potuto dire, pensare, fare... In cuor mio speravo che lui ricambiasse i miei sentimenti, che si lasciasse prendere una mano da sotto il tavolo e, guardandoci negli occhi, capisse. «Quanto può durare questo limbo?» avrei voluto domandargli tutt'a un tratto per riempire il silenzio creatosi nel frattempo tra noi. «Forse fra pochi minuti l'incantesimo che ci tiene uniti si dissolverà di colpo e allora, come un conduttore esposto a un sovraccarico di elettricità, anche quel circuito avrebbe fatto saltare la valvola di sicurezza e tutto sarebbe sprofondato nelle tenebre». Ormai stavamo seduti lì da un po' come se attendessimo qualcosa da un momento all'altro, quando sfiorandomi con lo sguardo Milo si girò improvvisamente verso di me. Un'ora più tardi Milo ed io rotolavamo sul pavimento in legno del bungalow. L'odore del suo corpo sapeva di verità. Una strana idea, ma era una sensazione reale. Ripensavo a tutto il tempo passato a cercare di far colpo su di lui, a struggermi, a scacciarne anche il solo pensiero e a temerlo. Quanta dolcezza c'era invece adesso nell'accettarmi a cuore aperto. Lo sentivo per certo. E pensavo che doveva essere una sensazione simile a quella che si prova a essere un santo. Magnanimità ed estasi. Sebbene non mi riusciva a immaginare nessun santo in una posizione simile alla nostra. E giurai a me stesso, che una volta ritornato a Milano, gli avrei chiesto di accompagnarmi in quel vecchio campo nomadi.
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