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  Racconto di Alois Braga
In quella stanza d'albergo
 
  [11] agosto 2010  
 


Alois Braga, fondatore e ideatore di questo sito, nasce il 13 settembre 1978 a Milano.
Da grande si laurea in Scienze della Comunicazione, indirizzo Mass Media. Durante il periodo universitario, lavora per alcuni anni in pubblicità come copywriter freelance.
Colpito da una forma incurabile di leucemia, il 23 maggio 2004 Alois muore prematuramente.

 

 

 


Quando entrai per la porta di quella stanza d'albergo fui preso da un'ansia improvvisa allo stomaco. E stare lì, fermo, a misurare la tensione, i minuti, le ombre sulla porta, era come giocare d'azzardo. Un falsopiano di cui non conosci l'inclinazione: se corri non sai se potresti fermarti, se vai piano gli altri ti sorpassano. Perché dipendeva dal superamento di quella soglia se quella notte avrei potuto rinascere, e domani vivere, guardando l'amico con gli occhi di chi crede in lui nuovamente.

Senza il corpo di Mirko il tempo si era fermato per una immobilità maledetta. Da quando mi mancava non sapevo se erano secoli, anni, o appena un minuto: sapevo solo che senza quel corpo, senza la certezza di quel corpo io non potevo sperare di vivere oltre. Oltre ogni ragionevole dubbio. Oltre ogni ragionevole sensazione di pienezza. Oltre la carne.

Le arterie battevano convulsamente. Guardai l'orologio, era in ritardo di mezz'ora. Forse non sarebbe mai venuto. Impossibile, me l'aveva giurato. Vorrei poter tornare indietro, forse faccio ancora in tempo, del resto non mi ha visto nessuno, il portiere di notte non conta. Ma perché è così in ritardo?, pensai. Perché mi ha detto di piacergli ancora e mostrato di starci, e adesso non viene?

Un innamorato gioca il tutto per tutto, dissi. Ma uno più innamorato no, è debole! Tu ci credi che lui venga?, perché il problema sta tutto qui. Perché se credi questo, tutto è ancora possibile. E se non viene?, pensai. Dico sul serio: e se non viene? Se ti dicessi che la vita senza di lui non mi piace più, che la mattina mi alzo tardi e non vado all'università, e che la sera vado a letto prima per lo stesso motivo, mi crederesti? Ho paura di lui, ecco la verità, pensai. Forse ho paura di sapere che è finita, non posso saperlo, capisci? E temo che invece sia vero, urlai nel vuoto di quella stanza d'albergo.

Mi avvicinai alla finestra. Pioveva. Ero quasi felice che piovesse, così potevo sempre pensare che se lui non veniva era per la pioggia; e non perché non mi amasse o non gli piacessi, ma per la pioggia. Ma poi pensai che se fosse stato anche solo un poco innamorato di me non gli avrebbe fregato un cazzo della pioggia, anche fino a inzupparsi fradicio, pur di rispettare il nostro appuntamento, pur di venire. Perché io lo avrei fatto. E allora?

Allora avrà senz'altro una scusa valida, sarà stato trattenuto da qualche parte fino a tardi, non c'è dubbio: non si comporterebbe così! Lo vedi che sei proprio innamorato? Neghi persino l'evidenza delle cose.

Mi buttai sul letto, sfinito. Accesi una sigaretta, e rimasi in silenzio con lo sguardo puntato al soffitto. Ad un certo punto capii che con lui scommettevo lì la mia esistenza. Doveva tornare mio, a tutti i costi, e perché ciò accadesse bisognava che io ne fossi convinto. Ne ero quasi sicuro, anche se era su quel quasi che si basava la mia ansia. L'urgenza di averlo testimoniava che tra me e lui c'era molto di più di una semplice attrazione: ma se lui si giocava un'occasione, per me era la vita.

Per un attimo ebbi l'assoluta certezza che lì, su quel letto, sarebbe stato mio e io suo, come una prova capitale. E fui già sopraffatto dal desiderio. M'immaginavo il calore della sua pelle mano a mano che mi toglievo i vestiti, e potevo sentirne anche l'odore, un odore forte e intenso, e delicato allo stesso tempo. Il suo fiato mi sfiorava le labbra, mi sentivo avvolto, protetto nella fantasia di quel momento. Non potevo più attendere, la forza della vita mi gridava dentro. Allora mi strappai via quel poco che mi rimaneva addosso, mi liberai degli slip e afferrai il mio sesso. Lo strinsi forte in mano, così forte da farmi male. Mi sentii ricostruire, e mi guardai nello specchio mentre mi masturbavo con un piacere animale. Fu come spegnere un fuoco. Si consumò in un niente.

L'attimo è chiuso come l'atomo, ma dentro e intorno ha universi di spazi e infinite possibilità. A percorrerli da un attimo all'altro ci vogliono secoli o decimi di secondo, e il vuoto sotto può succhiarti via. Non me ne rendevo conto unito com'ero a lui, ma già il sospetto era sicurezza che non sarebbe venuto, ed era certezza anche se il sospetto apriva l'insicurezza del dopo. La realtà era che Mirko non c'era, ma realtà era anche questo piacere dell'attesa, questo tenermi sospeso sugli abissi della solitudine, reali, tangibili, onnipresenti, esaltando la mia possibilità di superarli.

Anche se ne avvertivo la presenza lì, solo in quella stanza d'albergo, ora Mirko era scomparso al di là della curva del pensiero e del desiderio, perché in me si faceva largo la voglia di sublimare quell'amore impossibile, diviso in due parti. Nelle due parti in cui ricercavo nell'una il soddisfacimento, costruito con tappe di carne, e nell'altra una carica in più verso l'amore; non quindi soltanto esercizio sessuale del piacere, ma rappresentazione.
E rappresentare è dell'uomo, dei fatti dell'uomo, dell'accadere e del narrare dell'uomo.

Bussarono alla porta. Svegliandomi di soprassalto, capii di essermi addormentato.

- Ci scusi, è quasi mezzogiorno, dovremmo riordinare la stanza... - disse una voce di donna, dal di fuori.

- Si... solo un minuto! - risposi.

Mi guardai accanto, e mi sentii soffocare. Si sprigionava dal sangue e dalle viscere una specie di gorgo a rovescio di cui non si conosce il mistero. Capii cinicamente quello che era successo. Quel momento, come ogni altro, era parte del drammatico programma dell'accadere. E noi non possiamo che adeguarci. E capii che l'amore coincide con la morte di ogni amore.

 

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