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  Mariagrazia Tumbarello
  Ricordi di scuola
Racconto [2]

 

     
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ANDARE con la memoria negli anfratti del tempo significa abbandonare temporaneamente il contatto con il proprio sé presente e dirigere attenzione e coscienza su frammenti di vita vissuta che ci sono appartenuti e che hanno poi contribuito a formare l'io da cui momentaneamente ci si allontana.
Ricordare non è mai operazione semplice né neutra: la nostra mente agisce filtrando momenti e sensazioni che, all'epoca degli eventi, abbiamo vissuto come particolarmente significativi o portatori di significato. Difficilmente ricorderemo cosa abbiamo consumato a pranzo quel dato giorno del 2001 se ciò non ha avuto, almeno nel contesto in cui il pranzo si è svolto, un significato particolare sulla nostra coscienza: se in seguito alle pietanze io fossi stato colto da un malore tale da richiedere un immediato ricovero dovuto ad un'indigestione, è piuttosto probabile che anche ad anni di distanza io conservi il preciso ricordo della qualità del cibo ingerito, ricordo che si sgretolerebbe nell'incessante fluire del tempo se a quel pranzo non fosse seguito nulla di particolare.
Da quel 1978, anno in cui iniziò la mia avventura scolastica, sono ormai trascorsi trent'anni e ripescare nel fondo della mia coscienza gli eventi che vi sono trattenuti è complicato ed emozionante insieme: come il vento erode le particelle superficiali delle pietre su cui soffia lasciando intoccate le zone dure e antiche di cui sono costituite, così la memoria spazza via momenti e sensazioni poco pregnanti e rimanda nitide immagini di quel che più ci ha toccato.
Quel preciso attimo in cui varcai la porta della scuola elementare privata accompagnata da mia mamma è come lo vivessi ora: i miei sei anni non mi consentivano di vivere quell'esperienza di passaggio così delicato con la consapevolezza dovuta, che solo l'esperienza e la maturità acquisite nel tempo le hanno saputo imprimere.
Non ho un preciso ricordo di come fossi abbigliata, agli aspetti pratici provvedeva allora, come fino a poco tempo fa, mia mamma, sopperendo alla mia congenita e quasi assoluta mancanza di attitudine in tal senso,   con cui fin dalla più tenera età ho imparato a convivere.
La mia indole di bambina poco pratica e la propensione a fantasticare avrebbero avuto sul corso degli eventi futuri e nella mia formazione personale un peso decisivo e fondamentale: si sarebbe rivelata ben presto elemento di ostacolo al raggiungimento di mete desiderate e contemporanemente strumento privilegiato di affermazione della mia identità.
Non ho dimenticato, invece, il profumo dei fiori che esalava dai vasi posti all'esterno delle aule, la sensazione della pelle bagnata dall'acqua quando, nei giorni di pioggia in ritardo sull'orario di entrata scolastica, la mamma mi lasciava a pochi passi dal cancello di scuola ed io trafelata gioivo nel sentir scorrere su di me le gocce di pioggia che mi lasciavo scivolare addosso.
Nemmeno scordo l'aroma delle brioche fresche del panificio all'angolo della via, meta preferita degli alunni della scuola che facevano a gara per assicurarsi un posto in prima fila; ben impressa in me la gara d'eleganza in cui le bimbe più carine e benestanti si impegnavano sulla strada da casa a scuola, passerella privilegiata di agi da ostentare.
Poi ci sono le aule, le decorazioni dei soffitti eseguite ad arte per rimarcare il senso della tradizione religiosa che traspirava da ogni dove, il saluto affettato delle suore sul sagrato d'entrata, la malinconia che prendeva l'anima quando la mamma si allontanava con un cenno del capo.
Conservate nei labirinti della memoria le immagini, solo lievemente sfuocate dal tempo, dei primi compagni di classe: ancor oggi rimbalzano nella mia coscienza con la potenza di un tuono associate ad alcune loro caratteristiche che si ergono imponenti come cattedrali nel deserto: e allora ecco Carlo lo sdolcinato, Marta la decisa, Roberta la bella...
La realtà degli eventi, quando filtrata nel ricordo, appare trasfigurata, eppure conserva tratti di verità e genuinitàche la fanno apparire tal quale l'abbiamo vissuta e proprio in ciò risiede la potenza del ricordo: di amplificare, modificare l'evento pur facendone persistere i tratti essenziali che, come cattedrali nel deserto, prendono a autonomia e si fanno largo in noi.
Rivisitando la scuola elementare dell'epoca l'aspetto che più mi colpisce, oggi, è la dimensione degli spazi, delle attrezzature, tutto ovviamente pensato e realizzato a portata di bimbo: ho di recente rivisto la lavagna di allora, per accedere alla quale avrei bisogno di inginocchiarmi, così come dovrei rannicchiarmi su me stessa per sedermi alle sedie su cui eravamo: tutto desta una strana impressione, la sensazione che quegli strumenti non potevano essere pensati proprio per noi, che siamo oggi così cambiati.
Perfino il linguaggio rivolto a bambini di quell'età suona oggi fuori luogo, zeppo di intercalari "È chiaro per tutti?, di vibrazioni della voce falsate dall'apprendimento di tecniche didattiche, di sorrisi della maestra artefatti. Quando si è fanciulli non si ha la tendenza alla critica, che verrà interiorizzata successivamente e vige indiscussa, come tacita regola universale, la formula dell"ipse dixit" di aristoteliana memoria, per cui anche le fesserie più palesi pronunciate da chi detiene autorità sono inconfutabili: tutto ciò che trapelava dalle labbra della maestra suonava scontatamente ovvio, i comportamenti che solo con il trascorrere del tempo si è potuto definire quantomeno balzani apparivano allora normali e indiscutibili.
Mi sovviene l'aula addobbata con la cartina geografica della nostra Penisola, l'imponente figura dell'insegnante cui bastava un cenno del volto per rimettere tutti in riga, la singolarità di alcune compagne con il vezzo acerbo di mirarsi allo specchio durante le uscite per la quotidiana pulizia cui eravamo chiamate a determinati orari, l'inveterata abitudine ad un abbigliamento che pareva creato apposta per quella scuola e per le attese di chi la gestiva, la segreta aspirazione a primeggiare sulle compagne in tema di voti e apparenza esteriore.
Mi invitano ad un dolce sorriso le modalità di presentazione delle prime regole grammaticali della nostra lingua: per dare concreto risalto ai primi rudimenti linguistici, la maestra aveva pensato di delegare l'ardito compito alle carrozze di un trenino rudimentale da lei creato e così aveva caricato soggetto, predicato e espansioni varie sui vagoncini del mezzo di trasporto in legno massiccio; non meno simpatia mi crea il ricordo della trasmissione delle iniziali nozioni di aritmetica così che tutto sembrasse un gioco, quasi un passatempo cui devolvere quelle ore della mattina, mentre solo dopo si scopri' che sull'estenuante alternarsi di frasette da decifrare e addizioni da svolgere si sarebbe rafforzato non solo il nostro sapere ma la nostra intera identità.
Non densi di grandi palpitazioni o emozioni vibranti quei primi anni di scuola, come spesso, forse per una voluta ipocrisia che mira a dipingere il ricordo con tonalità forzatamente emozionanti, si è soliti descrivere quel primo impatto con il mondo del sapere.
Emozioni e sensazioni che hanno dominato, invece, il momento di passaggio alle scuole medie e al liceo: forti di una consapevolezza maturata nel tempo e delle esperienze vissute via via, quegli anni hanno ancor oggi il sapore dell'ebrezza, delle prime inclinazioni verso l'altro sesso, del piacere di far gruppo attorno ad un libro illustrato di storia, delle confidenze tra noi ragazzine, della complicità talora solo apparente che ci accomunava di fronte a un insuccesso del compagno.
Il primo suono della campanella in prima media fu affrontato nuovamente con la mamma, presenza viva nei ricordi di sempre e fu segnato da una spiccata ansia per le aspettative di cui era ammantato quel balzo scolastico che mi faceva sentire grande. Miriadi di frammenti di ricordo scheggiano il mio presente e solo uno sforzo mirato mi permette di assemblarli un poco più ordinatamente di quanto non si presentino, flutti anomali in perenne agitazione a rovistare nella mia mente.
E allora dirò dell'insegnante di musica, unica in tutta la città a non averci imposto l'insegnamento di uno strumento musicale ma ad aver propeso per il caos più assoluto ed incontrollato, del terrore vero che ci coglieva all'ingresso della professoressa di matematica cui tributavamo in pubblico attenzione e riverenza e nel privato improperi e accuse che oggi ritengo immeritati, della sensazione sbiadita che il tempo mi rimanda dell'altrettanto inconsistente figura dell'insegnante di francese, cui devo molto quanto ad apprendimento linguistico, nulla sul lato umano e delle relazioni personali.
Eravamo già la perfetta sintesi della perversa logica che governa l'esistenza: in un attimo da agnelli divenivamo lupi, con una repentinità da lasciarmi oggi stupita: dottor Jeckill e Mister Hide fusi in un'impari lotta, la nostra   anima pronta all'occasione a farsi tenera e docile con i determinati e a riversare il proprio sadismo sui mansueti: scoprii negli anni a venire che quell'innata tendenza dell'essere umano altro non era che un iniziale, maldestro tentativo di sopravvivere in società a spese del più debole da un lato, ingraziandosi il favore del più determinato dall'altro.
Ero piuttosto brava a scuola, per tutti ero "la secchiona", fortunatamente ero riuscita a ritagliarmi anche un'immagine di simpatia e di generosità verso i meno abili nelle discipline scolastiche: confesso onestamente che ancor oggi non so affermare con sicurezza se quell'immagine di ragazzina simpatica, oltre che discretamente intelligente,   fosse un inconscio tentativo da parte mia per realizzare una concreta, vincente sintesi di caratteristiche umane, senza le quali la sopravvivenza in un gruppo adolescenziale diviene complicata se non impossibile. Simpatica e sollecita per tornaconto personale o per inclinazione naturale che fosse, sapevo di risultare gradita in siffatta veste e ciò non faceva che rinforzare il mio striminzito ego, disponendolo   a procedere lungo il medesimo cammino negli anni seguenti.
Dopo un suggerimento andato a buon fine in occasione di una verifica o di un'interrogazione di un compagno ero sinceramente soddisfatta poichè sentivo in cuor mio di aver incassato io, per conto del destinatario dell'aiuto, un ulteriore merito scolastico... forse, rifletto ora, non di bontà disinteressata si trattava ma di puro atto di egoismo fatto passare per generosità, che solo la riflessione in anni di maturitàè riuscita abilmente a smascherare.
A quegli anni risalgono i pensieri, le gioie e le amarezza che gli albori dell'adolescenza creano e sviluppano: il ragazzo dell'aula accanto che faceva battere il cuore a tambur battente, qualche lieve incomprensione con i genitori che affliggeva le giornate, i piccoli progetti della domenica da trascorrere con le amiche, apparente quadretto idilliaco che non deve indurre all'errore di leggere la mia adolescenza come un periodo privo di blande trasgressioni o come viatico verso una vocazione monastica che non era propria del mio animo.
Anch'io coltivavo i miei momenti di solitudine e di pensieri solo miei e i pensieri degli adolescenti credo fossero, allora, dello stesso tono di quelli di oggi.
Ho ancora in me il senso di voluttà con cui avevo accolto i primi approcci alla   lettura, che allora come oggi è il mio quotidiano percorso verso il mondo, il conosciuto e lo sconosciuto.
Mi conferisce un enorme piacere addentrarmi nei meandri infiniti delle parole, nelle selvagge amenità dei pensieri e dei percorsi della mente... da ragazzina leggevo più per imposizione che per vero piacere, ma oggi sono infinitamente grata a quell'obbligo senza il quale non sarebbe sorto l'immenso piacere che avverto ora quando mi accosto alla lettura.
Si tratta di un piacere anche fisico, quando leggo è come se mi innamorassi, ogni libro è come un amante che mi accarezza, che mi mostra luoghi sconosciuti, che mi indica i sentieri dell'anima e del cuore ancora celati alla mia conoscenza; e allo stesso modo amavo e amo la scrittura, il fluire copioso che sgorga dentro di me pronto a farsi lettera, le mie emozioni gettate sopra il foglio, le bizzarrie che mi percorrono che si addensano e si fondono in pensieri ordinati.
Se non amassi leggere non amerei nemmeno scrivere e viceversa, considerazione più emotiva che logica ma alla cui ovvietà sono spinta più dalla ragione che non dal cuore.
I miei genitori ebbero la fortuna, o la capacità o entrambi di avere una figlia cui non dovettero imporre quasi nulla che già lei non compisse di sua spontanea volontà: è indubbio che la frizione tra figli e genitori ha percorso trasversalmente ogni epoca ed ogni latitudine, con sfumature cangianti su un medesimo sfondo di sfida costante, ma io seppi assorbire questa delicata fase senza contraccolpi di particolare entità.
Quando si creavano momenti di tensione, cercavamo di superarli in un clima di reciproca fiducia, consapevoli ognuno del ruolo e dei relativi compiti e responsabilità cui eravamo chiamati.
Essere genitori era complicato allora quasi quanto lo è oggi, ma la differenza sostanziale, a parte il notevole cambiamento delle dinamiche sociali che rendono ogni epoca unica e irripetibile, sta nel rispetto che allora si tributava ai ruoli che ognuno era chiamato a rivestire.
Il genitore sapeva che doveva essere genitore fino in fondo, con gli annessi e connessi che si confanno a questo status: doveva dirigere la famiglia, accompagnare i figli nelle loro scelte, suggerire e anche vietare, forti della consapevolezza che non esiste forma di educazione che non passi per il terreno impervio dell'obbligo e della proibizione.
Senza il senso e la pratica dell'obbligo e del divieto vivremmo nella più totale anarchia, privi di direzione, affondati in un'esistenza senza mete, annoiati dal nulla, insopportabili perfino a noi stessi.
Ultimo giorno di scuola con attesa dei risultati degli esami finali, classico rituale di fine anno che mi vedrà impegnata nei successivi cinque di liceo. Baci e abbracci di rito con la promessa di rivederci nell'immediato futuro, promessa che sapevamo avremmo infranto lungo l'alternarsi di fortune e vicissitudini che la vita sempre presenta.
L'estate scorre in un lampo, regalando un riposo mitigato dall'apprensione per l'attesa del nuovo, temutissimo, ordine di scuola: il liceo, vituperato, amato e odiato, riposto nei meandri dell'anima di milioni di uomini che li' sono metaforicamente nati, vissuti e periti.
La mamma questa volta non c'era a confortare la mia fragile insicurezza all'ingresso di settembre nella nuova scuola, sarebbe stato quantomeno imbarazzante presentarsi tra quelle ragazzine sveglie e abbigliate da adulte con mamma al seguito.
La voce roboante della Preside annunciava la ripartizione nelle sezioni cui eravamo assegnati, salire le scale non mi era mai parso così estenuante e infinitamente complicato, raggiunsi l'aula e subito il mio sguardo sui volti dei presenti, teso a carpire intenzioni, sfumature di carattere e tendenza media del quoziente intellettivo, mi fece presagire una discreta possibilità di riuscita scolastica, chè nessuno mi parve avere l'aria di chi si danna sui libri o di chi consacra la propria vita alle pur vibranti note del sapere filosofico o storico.
Deduzione che si rivelò corretta, di novelli Einstein in quella classe nemmeno l'ombra, e ciò mi permise di mantenere viva la mia immagine di ragazza studiosa e per giunta pure gradita a tutti: compresi però che l'energia necessaria a realizzare questo compito era spropositata rispetto ai benefici che ne avrei tratto e allora mi impegnai maggiormente sul solo versante dell'impegno scolastico, che non mancò di regalarmi discrete soddisfazioni.
Quegli anni furono decisivi per la mia formazione culturale e la mia complessiva crescita interiore e contribuirono totalmente alle scelte di vita che maturai in seguito; a quell'età non c'è né tempo, né desiderio, né capacità per l'approfondimento, per andare oltre il mero dato oggettivo e concreto, per cui anche gli studi potenzialmente più gratificanti vengono ridotti a stanco e abusato rituale di formule poco significative e slegate dal contesto in cui andrebbero a giusto titolo inserite. Non è retorico affermare che studiare Platone per conoscerne vita   e pensiero non ha alcun valore se tale operazione non è accompagnata da una riflessione sul contesto storico, culturale in cui egli visse e sull'influenza che il pensiero, sempre, ha avuto come motore e guida di avvenimenti e rivoluzioni di varia natura; arduo obiettivo in età adolescenziale, difficilmente comprensibile e attuabile quando il primo pensiero è quello di raggiungere la sufficienza nella materia e evitare un'estate sui libri a rovistare nei vagheggiamenti degli antichi ai quali, per quanto affascinanti, vengono in media preferite le calde, vuote estati stesi a bruciare corpo e mente in sconosciuti lidi attorniati da sconosciuti esseri.
Riassumere in poche righe anni di studio e di esperienze non è semplice, si può però sollecitare la mente ad indugiare sulle impressioni, sul sottofondo che ha caratterizzato quegli anni ed un mirato sforzo di recupero in tal senso consegna alla memoria immagini di volta in volta nitide o sbiadite, fotografie di passaggio nella mente che tento di acchiappare e di stringere a me, ben consapevole che ciò che è finito è finito e nessuna operazione di salvataggio potrà mai restituire altro che il ricordo.
La nostalgia per la giovinezza ormai sepolta e per la spensieratezza che percorreva gli istanti della vita di allora si sovrappone alla miseria dell'oggi in una spirale di cui a volte fatico a definire il confine tanto l'intreccio è denso e allora evito di dipanare la matassa perchè scoprire il nerbo vivo potrebbe farmi più male che non vivere con frammenti di ricordi vaganti e confusi. Lo sforzo di mantenere tutto com'è non frena l'autonomo crearsi di suggestivi quadretti dalle tonalità via via diverse in base all'angolatura con cui mi si presentano: il portone d'entrata che mi pareva quello dell'Inferno di Dante, tanto me lo figuravo con riverenza mista a timore, imponente e misteriosa forza che ancor oggi agita i miei sonni, l'impettito avanzare dell'insegnante di matematica soggetto preferito delle nostre canzonature senza vera malizia, il sorriso finto della bidella che ci richiamava all'ordine sulle scale, la sua accoglienza la mattina, scarmigliata e sonnolenta ad affrontare l'ennesima frustrazione giornaliera, i compiti in classe su cui lasciavamo lacrime e sudore, il prof di lettere maestoso e misteriosamente e profondamente coinvolto nelle quotidiane incombenze lavorative, discettava di Dante e Petrarca con una vorace passione che invogliava a condividerne, almeno in parte, la smisurata dedizione.
E poi, immancabile, la pausa delle undici, che si colorava di confidenze, pettegolezzi, a stornare con una riserva di spontaneità le ore trascorse con il volto teso sui libri; il consueto appostamento lungo i corridoi nell'attesa del ragazzo dell'aula accanto cadenzava i blandi ritmi di quelle brevi pause e forniva occasione di fitte e inconcludenti discussioni tra noi ragazze che si rivelavano nefaste per la concentrazione delle ore seguenti, quando il dovere, nuovamente, ci richiamava all'ordine.
Ho sempre amato studiare, era ed è per me un vero piacere inerpicarmi sulle vie del sapere, studiare è per me come viaggiare, mi figuravo ogni materia scolastica come una nazione da scoprire, da interpellare, ognuna con i propri paesaggi, le proprie leggi, i propri ritmi. Studiare equivale a viaggiare perchè sono entrambi percorsi senza fine, chè se anche vivessimo 200 anni e il nostro tempo fosse interamente dedicato allo studio e al viaggio, non potremmo ragionevolmente affermare senza tema d'essere smentiti di sapere tutto o di aver esplorato l'intero universo in ogni suo più remoto anfratto. Occorre, dunque, rassegnarsi: la qualifica di ignorante ce la meritiamo tutti, e i dotti, quelli veri, ne sono tanto più consapevoli in quanto proprio l'impegno profuso a raggiungere risultati di eccellenza li ha resi edotti della sconfinata vastità di cui il sapere si compone. La differenza tra un ignorante non colto e un ignorante dotato di una certa cultura risiede nella mancata consapevolezza del primo di non sapere (come farebbe a sapere di non sapere se al sapere non si è mai avvicinato e non sa dei suoi infiniti percorsi!?) e nella dolorosa accettazione del secondo di non poter mai pervenire ad uno stato di assoluta conoscenza.
I ricordi di ieri rivisitati con gli occhi di oggi determinano un necessario storpiamento della visuale percettiva, per cui immagino che situazioni vissute e filtrate dalla nostra coscienza in passato siano percepite dal nostro io attuale con una consapevolezza mutata dal mutare di noi stessi nel tempo: è allora probabile che l'insegnante preferita in quegli anni sulla base di principi validi all'epoca del giudizio, sarebbe oggi valutata diversamente venendo a mutare le nostre convinzioni e i criteri di giudizio.
Sarà allora questo inevitabile errore percettivo che impone alla mia coscienza considerazioni degli anni di scuola come anni irripetibilmente densi di tutto, colmi di gioia grondante da ogni poro del mio essere? Probabile, allora, che gli istanti che vivo attualmente assurgano ad un giudizio altrettanto lusinghiero e insindacabilmente positivo tra qualche anno allorquando, in un medesimo percorso di rivisitazione del passato, io sarò condotta a considerarli come i migliori della mia vita, quando ora non posso, ahimè, che sentirne sulla pelle l'agonia e la nausea che solo sanno, ora, donarmi.

 

   
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