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  Sickboy
  Luci e ombre
Racconto [38]

 

     
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«Devo avere coraggio, lasciarmi andare, rincorrere la mia felicità, devo correre il rischio, voglio vivere, non posso rinnegare situazioni mai vissute, non devo aver paura, devo provare, devo cambiare, voglio l'amore, lo voglio, lo merito... andrà tutto bene, mi bacerà, inizierà tutto così... Voglio amare!»

Era questo ciò che mi rimbalzava nella testa, scuotendo le mie emozioni: la voglia di sentirmi vivo e riprendere in mano le sorti della mia esistenza; di darle consistenza, valore, vigore e non lasciarla morire tra la noia del solito spompo pomeriggio delle domeniche d'inverno.

E intanto San Valentino era passato in silenzio, come una sigaretta che ti si consuma tra le dita e non arriva mai alla bocca, un qualcosa che senti nell'aria ma non puoi inspirare.

Il mio portatile respirava affannosamente sulle mie ginocchia; la luce spenta sfidava il freddo dal quale il parquet proteggeva i miei piedi nudi.

Sotto le coperte tremavo ancora, tremavo ma non sentivo freddo. Eri tu a riscaldarmi, con quella voce sensuale che gelava l'aria: tu, un viso, un corpo e un'anima affacciata al desktop del computer.

Avevo paura di accendere la webcam, ma alla fine ho ceduto; ho ceduto a te e alla tua voglia di conoscermi.

Allora sono corso in bagno a cambiarmi; mi sono spogliato, e davanti allo specchio mi sono chiesto se ti sarei piaciuto. Ho infilato una canottiera nera che evidenziasse le mie spalle, l'unica cosa che rendeva passabile il mio corpo, e nell'imbarazzo di febbraio ho offerto centimetri di carne nuda ai tuoi occhi appesi al desktop.

Abbandonavo così le tue risposte laconiche che inseguivano l'esposizione dei miei pensieri, e lasciavo che le mie dita ballassero per ore sulla tastiera, schiavizzate da quel mondo virtuale fatto di mezze verità condite con il desiderio di apparire celestiali interpreti di personalità stravaganti.

Cosa c'è tra il virtuale e il reale?

Ci sono io, ci sei tu. Due ragazzi diversi, tra le luci e le ombre dell'esistenza, tra la voglia di amare e quella di distruggersi.

Vuoi vedermi. Mi chiedi se posso prendere il treno per Foggia, ci incontreremo là, a metà strada tra le nostre città.

Ma ho paura. Alla fine però l'istinto prevale, e come sempre, nel bene e nel male, è lui a scegliere per me, soffocando tutto il resto.

Salgo su quel treno.

Ho paura. Chi può dire che non hai mentito? Forse sei etero, e vuoi solamente giocare a fare il figo con un frocio. Forse non verrai, e mi lascerai solo in una città che non mi appartiene. O forse non sei la persona che ho conosciuto in chat, il ragazzo che di fronte alla mia timidezza mi chiamava amore, così, soffiandolo appena come verità.

Scendo dal treno.

Di fronte alla stazione noto un ragazzo dentro una macchina; inizio a fissarlo sperando che mi faccia un segno, ma non riesco a vederlo bene, e non sono sicuro che sia lui. All'improvviso però sento pronunciare il mio nome: mi volto, e riconosco quel ragazzo che fissavo nelle foto al computer e in webcam per pomeriggi interi.

«Sono Francesco» mi dice un po' imbarazzato, porgendomi la mano.

Andiamo verso la macchina.

«Hai visto, alla fine ci siamo conosciuti» mi dice, appena saliti.

Io non so cosa rispondere, allora gli sorrido, e mentre la macchina parte verso una destinazione che non conosco, penso a qualcosa per rompere quel silenzio soffocante. Alla fine dico che sono felice, perché per la prima volta incontro un ragazzo come me, e poi gli domando se conosce molti gay.
Non ha il tempo di rispondere, il suo telefono inizia a squillare. Parla con un certo Stefano, dice che non può parlare perché è a Foggia con un amico.

Dall'altro capo del telefono si sente una risata da stronzo; poi si salutano.
Mi guarda, e dice: «Era un amico gay... comunque ne conosco tantissimi, Foggia è piena di gay... e lo è anche Manfredonia».

Glielo sento dire con sufficienza, come se avesse voluto scandalizzarmi. Allora lo accontento, e gli faccio: «Davvero...?»

Lui annuisce appena.

Poi gli dico: «Lo sai... non avrei mai sospettato che uno del tuo tipo potesse essere... sei... così normale!»

Mi interrompe con un po' di orgoglio: «Si, sembro etero al cento per cento, nessuno ha mai dubitato di me... e comunque le persone più insospettabili sono gay... anche nella mia squadra di pallavolo, non penso di essere il solo... quando mi spoglio... me ne accorgo di come mi guardano gli altri maschi.»

Sorrido di nuovo, anche se in quel momento so che non ha alcun senso. E inizio a detestare la sua eccentrica sicurezza, quel suo modo fastidioso di parlarmi come se si rivolgesse a un ragazzino con appetiti sessuali latenti e ancora vergine, da indottrinare alle arti della perversione.

Di colpo gli chiedo dove mi stia portando, mi parla di una fantomatica zona gay di Foggia.
Alla fine imbocchiamo una strada buia, nei pressi della stazione ferroviaria.

Mi guardo attorno cercando di focalizzare qualcosa al di là del finestrino, perché in cuor mio so esattamente cosa accadrà, cosa mi aspetta e cosa sto per perdere; allora cerco qualcosa da custodire dentro gelosamente, qualcosa da ricordare di questa domenica di San Faustino. Qualcosa che sarebbe sbocciato in altri momenti, in mille altri momenti, in tutta la mia vita, così, a piccoli sorsi, con la timidezza di un ricordo sfocato che preferiresti dimenticare e che invece si confonderà violentemente negli sguardi di tutti i ragazzi che conoscerò.

Lui ferma la macchina. Iniziamo a parlare, e poco alla volta vedo scomporsi la sua eccentrica sicurezza. Scopro una persona infelice come me, che ha sepolto nel proprio passato il vero amore e ha lasciato che chiunque lo desiderasse, accarezzasse il suo corpo inciampando tra sesso e solitudine.

Mi parla del suo primo ragazzo, mi racconta con sofferenza di quanto fosse bastardo e del fatto che lo tradiva spesso.
«Alla fine l'ho lasciato» dice a bassa voce, ma con rabbia. «Per lui ho litigato con la mia famiglia... voleva sputtanarmi e mi minacciava... voleva far sapere a tutti che sono gay, perché io non avevo il suo coraggio... alla mia palestra, ai ragazzi che alleno, alla mia squadra... voleva rovinarmi!»

Dopo inizio io a parlare; gli racconto qualcosa, ma a lui sembra non interessare.
Allora torna quel silenzio, impacciato, confuso, disperato.

Mi guarda negli occhi, e spezza quel silenzio con il suo Che vuoi fare?

Non rispondo, e stupidamente sorrido.
Adesso ci riprova senza più sottintendere niente: «Che vuoi fare? Vuoi scopare? Sei attivo o passivo?»

Fingo di non capire cercando tenerezza nei suoi occhi, e gli dico: «Io non l'ho mai fatto».

Sorride, alzando gli occhi al cielo; mi dice che per lui non rappresenta un problema, e poi mi bacia. Sento la sua lingua muoversi dentro la mia bocca. Lui chiude gli occhi, io non riesco a farlo: è il mio primo bacio e lui non lo sa. Alla fine rimango deluso.

Avevo sempre pensato a come sarebbe stato il mio primo bacio.
La prima volta che l'ho pensato ero sul letto con mamma, stavamo vedendo un film d'amore con un attore bellissimo. Lui afferra lei con dolcezza, le loro bocche rimangono sospese per un attimo, e poi il bacio. Quel bacio che sognavo tutte le notti prima di addormentarmi, baciando quel cuscino che mamma trovava sempre bagnato la mattina.

E ora invece sono qui a svendere il mio primo bacio a un ragazzo che conosco di persona da meno di un quarto d'ora. Eppure cercavo amore. Volevo che, per quanto fosse imprevisto e insulso, quel bacio nascondesse in un angolo appartato qualche briciola di semplicità, di purezza. Non volevo la sua lingua. Volevo non essere baciato come se stessi tessendo la tela del peccato, come se stessi trasgredendo a qualcosa. Volevo non sentirmi diverso in quel momento, volevo non sentirmi omosessuale mentre lo baciavo, volevo sentirmi io e volevo un bacio vero.

«Si vede che non hai mai baciato un ragazzo, mi stai baciando come se fossi una ragazza... non devi mangiarmi!» dice.

Poi si toglie la maglietta esibendo il suo fisico da pallavolista, e mi abbraccia.
Sento i suoi muscoli flettersi, il suo corpo irrigidirsi come per dimostrarmi quanto fosse tonico. Mi sbottona la camicia, mi bacia il collo, le spalle, il petto, ma nulla di tutto questo riesce ad eccitarmi. «Hai un bel corpo» mi dice. «Mi piacciono le tue spalle.»

Poi mi tocca, sento le sue mani agitarsi dentro i miei jeans, quasi tremare; mi guarda e dice: «Toccami tutto...che mi sto eccitando». Lo faccio. Mi abbassa i jeans, e mi viene sopra.

Intanto continuo in silenzio a cercare con lo sguardo qualcosa fuori dal finestrino: il buio, e quella luce improvvisa tutte le volte che passava il treno. Quella luce improvvisa che ci spaventava e ci impediva di proseguire. Quella luce che lo faceva nascondere dietro di me, come un bambino spaventato. Quella luce improvvisa che spogliava i nostri corpi nudi, coperti solo dalla notte.

«Di cosa hai paura?» pensavo. «Anche se qualcuno ci dovesse vedere dal treno sarà per qualche istante, e poi se gli sarà sembrato di aver visto due ragazzi che fanno sesso penserà di essersi sbagliato... e inoltre se fosse sicuro di aver visto due ragazzi fare sesso, non ci conosce, che cazzo te ne frega!»

Dopo passa anche una macchina, e per l'ennesima volta si copre dietro me: lo lascio fare, lascio che si nasconda; non so perché, ma in quel momento mi sento così disinibito da non provare più alcuna timidezza e alcun rispetto per il mio corpo.

«Stasera questo posto non è sicuro» mi dice. E la paura che qualcuno potesse allora vederci lo spinge a consumarmi in fretta, accelerando i tempi, eliminando i preliminari e la seduzione.

Mi prende l'anima virile in bocca, e io gli accarezzo la testa, la spingo appena verso di me, la faccio dondolare sul mio sesso come avevo visto fare in qualche film.

«Dimmi quando stai per venire che mi sposto...» mi dice. «Non sporcare la macchina che è di mia sorella.»

Io non vengo, la cosa mi imbarazza, e decido di fare da solo. Di colpo sfilo il pene dalla sua bocca, e inizio a masturbarmi. Lui intanto continua a baciarmi il petto. Vengo. Dura un attimo, ma per me è una liberazione. Mi passa un fazzoletto, e mi chiede: «Sei circonciso?» Non so se piangere o ridere; mi limito a dirgli: «no!».

Lui non viene. Anzi mi chiede subito se può accompagnarmi in stazione, perché deve vedersi con degli amici. Solamente allora mi pento: mi pento di aver fatto del mio, e del suo corpo, un oggetto da usare e gettare senza pietà.

Francesco rimette in moto la macchina; io evito il suo sguardo, deve dimenticare in fretta il mio viso e anch'io devo dimenticare il suo. Lui intuisce che sto male, e mi fa: «È stato bello... ti è piaciuto?» Poi prende la mia mano, e la stringe per darmi forza. Le nostre mani si uniscono, riescono a toccarsi e a fare quello che i nostri corpi non sono riusciti a fare: l'amore.

Accende la radio, una voce femminile attraversa i nostri pensieri; e ascolto quella canzone senza sapere se lo faccio per ricordarla e associarla poi alla mia prima volta, o per distrarmi e non pensare a ciò che ho fatto. Quando la canzone sfuma, superiamo la stradina buia vicino la stazione.

Torna la luce, le altre macchine e il resto del mondo, e lui allontana la mia mano. Siamo di nuovo tra la gente, e siamo tornati a recitare il nostro copione di ragazzi normali, in una società perbene segnata dall'ipocrisia.

Non parliamo. Io invece ho più che mai voglia di parlare e di essere ascoltato, ho voglia di sentirmi vero e di essere con una persona che mi voglia bene. Ho voglia di amore. Ancora una volta ne ho voglia, e più ne ho voglia più mi uccido.

Arriviamo alla stazione. Mi dice: «Scendi?»
Io cerco di salutarlo, vorrei baciarlo per l'ultima volta, ma lui mi allontana: «Adesso non possiamo più.»

Allora annuisco, e gli chiedo: «Ci rivediamo?»
Lui mi guarda, come per dire Solo nei tuoi sogni, ma un po' annoiato risponde: «Certo!» E sorride.

La verità è che non ci siamo più visti.

Riprendo il treno.

Il sapore della sua bocca è ancora con me, cerco di ingoiarlo con la saliva, cerco di togliermi l'odore di sesso e di annullare il suo sguardo.

Ritorno a casa.

Mamma mi chiede dove sono stato; vederla così mi fa piangere. Ho voglia di raccontarle tutto, di Francesco conosciuto in chat, del sesso in macchina, e del fatto che non ho più amici.

***

«Devo, mamma confessarti una cosa che ti darà forse dolore, ma che devo dirti [...]» incominciava ma subito si fermò. Come dire quella cosa, come dirla a sua madre? [...] «Mamma io e quell'uomo abbiamo fatto di quelle cose. Non chiedermi nulla» implorò Ernesto, quando fra le dita delle mani lesse il turbamento causato dalla sua confessione, [...] «adesso capirai perché non posso più tornare dal signor Wilder. Non devo più rivedere quell'uomo.» [...] Mascalzone, esclamò la donna prendendosela ad ogni costo con l'uomo [...] «abusare così di un ragazzino.»
«No - disse Ernesto - egli non ha tutta la colpa. Devi anzi giurarmi che non cercherai mai di parlargli. Perché tu non sai, mamma.» [...]
«E vorresti che io lasciassi impunito, dopo quello che ha fatto a mio figlio, ad un ragazzo per bene.»
«Non sono più per bene e non sono più un ragazzo [...] e se io avessi voluto...»
«Non mi dirai adesso che sei stato tu a pregarlo?»
«No, mamma a pregarlo no, ma... ma gli sono andato incontro a più di mezza strada.» [...] Ernesto si mise a sedere sul letto. Negli occhi color nocciola, lavati dal pianto, splendeva come una luce di bontà infantile.
[Tratto da: Ernesto, di Umberto Saba]


 

   
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