¬ SPAZIO AUTORE
 
¬ © COPYRIGHT
 

 

  Rurik Coboldi
  L'arco di Rama
Racconto [49] [Da: Geografie impossibili, silloge di racconti]
     
--------------------
¬ COMMENTI [0]
--------------------
¬ TORNA SU
 

In alto tre leoni s'azzuffavano intorno ad un pezzo di pane mentre in basso "tre pesci beanti" sguazzavano in mare. Più sotto stava il motto: Follia Illuminatio Gentis.

Stavo riflettendo su quella bizzarria e su cosa avesse spinto Re Riccardo ad attribuire a Quepas un siffatto stemma ed un ancor più insolito motto. Era stato Re Riccardo a fondare la città anche se - ancor oggi - le bianche colombe di Ishtar non si stancano di volteggiare occhieggiando la Rocca dove vestigia antichissime preludono a tempi ancor più lontani. Re Riccardo il Normanno venuto dall'estremo nord; Re Riccardo il Normanno assetato di sole e di mare; Re Riccardo il Normanno... il Grande.

Le citazioni storiche finivano qua. La leggenda prendeva il sopravvento in luogo della storia. Si racconta che i Quepalè fossero una stirpe antichissima al punto che Nostro Signore li creò ancor prima di aver creato il Buonsenso.

Un'altra leggenda racconta che i Quepalè furono chiamati a dirimere una lite sorta fra tre divinità greche su quale fosse di loro la più apprezzabile e propizia agli esseri umani.

Ciascuna divinità portò un dono in modo che i Quepalè potessero giudicare. Le tre divinità fecero sì che i Quepalè non fossero eccessivamente intimoriti di stare al loro cospetto.

Poseidone colmò il mare di pesci guizzanti e disse: "Da essi potrete trarre sostentamento, vita, forza" e tacque.

Artemide fece sgorgare, sulla Rocca, acque in molta copia e disse: "Quest'acqua purissima, come la Natura Incontaminata, vi renderà sapienti, saggi, puri" e tacque.

Ermes batté un piede per terra e fece scaturire dal suolo una fusaiola per metalli e disse: "Con questa fusaiola per metalli diventerete un popolo di forgiatori di metalli, il vostro talento sarà grande, i vostri commerci fioriranno, il vostro nome sarà conosciuto per ogni dove" e tacque.

I Quepalè spregiarono i doni degli dei e li irrisero con pesanti battute. L'esser stati chiamati ad arbitrare una contesa sorta tra divinità li aveva fatti sentire superiori agli Dei medesimi.

Gli dei furono molto dispiaciuti e contrariati dall'atteggiamento dei Quepalè e mutarono così il loro favore iniziale in uno sfavore finale nei confronti di queste genti. Non ritirarono i doni fatti ma... il mare, per l'avidità dei Quepalè, dette sempre meno pesci; ...le acque, per l'incuria dei Quepalè, diventarono sempre più scarse ed inquinate; la metallurgia, per insipienza dei Quepalè, non riuscì mai ad approdare a livelli apprezzabili ed in breve tempo se ne perse l'uso non lasciando traccia alcuna nella memoria umana.

Indubbiamente nelle leggende vi è un fondo di verità che travalica perfino la verità storica... ma il mistero del motto e dello stemma permaneva.

" Follia Illuminatio Gentis".

La frase mi martellava nel cervello ossessivamente al punto che non riuscivo più a liberarmene. Chiesi lumi ad amici versati in araldica ed esperti latinisti non ricavandone altro che l'aumento dei miei turbamenti. Per trovare sollievo pensai di interpellare l'Alcalde don Lappanio-Pisquano. Gli indigeni mi informarono che era facile incontrarlo durante la sua passeggiata pomeridiana nell'ora più calda della giornata.

"Don Lappanio-Pisquano soffre il freddo!" commentavano con una risatina.
A Quepas il caldo è veramente caldo e nell'ora prescelta dall'Alcalde gli incauti non di rado si ritrovano al pronto soccorso... Vestii in modo molto leggero e mi avventurai sul lungomare all'ora stabilita.

Intravvidi in lontananza una strana figura dall'aspetto asciutto anche se infagottata in una pesante gabbana. Don Lappanio-Pisquano passeggiava irrevocabilmente a capo scoperto al punto che il suo cranio, in buona parte pelato, a tratti riluceva.

"Don Lappanio!" l'apostrofai appena arrivò a tiro di voce. "Permettete don Lappanio?" Don Lappanio-Pisquano mi osservò con l'aria del maestro elementare, mi squadrò dall'alto in basso e senza che potessi articolare altra parola esordì: "Voi non mi rimembrate alcuno dei miei ex allievi, neppure taluno dei miei beneamati elettori e nemmeno ravviso in Voi il sembiante di qualche mio concittadino... ciononostante io, anche per voi, sono l'Alcalde don Lappanio-Pisquano."
Prese fiato e continuò: "...Quepas, magnifica Quepas... terra di lotta tra gli Azzurri-padroni e i Verdi-schiavi, dove gli schiavi votano per i padroni - volendo diventare padroni anch'essi - ma... lo sono già padroni... della loro schiavitù... ah! Bisanzio!"

Don Lappanio-Pisquano non si rendeva conto che l'impero bizantino era caduto ormai da circa sette secoli e che il partito degli Azzurri (o dei Signori) e dei Verdi (o del   Popolo) non erano altro che atavici ricordi e misconosceva perfino la scoperta dell'America in nome della Romanità.

Dopo una necessaria pausa di riflessione così riprese: "Quepas, magnifica Quepas: città di grande fede. Anni fa ci fu un sollevamento popolare affinché fosse costruito un grande stadio per il gioco della palla. La cittadinanza si levò in piedi come un sol uomo e fece valere le proprie ragioni. Lo stadio per il gioco della palla venne costruito... ma non fu costruito l'ospedale. I Quepalè sono gente di fede - non miscredenti! - e quando accusano qualche malanno o qualche disturbo si recano allo Stadio, portano i malati incurabili allo Stadio... e là... guariscono! Ho visto io stesso zoppi dalla nascita buttare le stampelle e camminare diritti... caddero poco dopo però. Ecco la verità: non c'è bisogno di ospedale quando il nostro Stadio per il Gioco della Palla ha virtù taumaturgiche tanto evidenti! Potessi essere Io l'Alcalde di Quepas!" mormorò concludendo il monologo e proseguì imperterrito la sua passeggiata.

Restai esterrefatto: l'Alcalde di Quepas pensava di essere Alcalde di un'altra città!
Don Lappanio-Pisquano non avrebbe mai potuto aiutarmi nella mia ricerca. Pensai allora di interrogare un esperto locale di Araldica un certo Josep Pirofilo Saurur, grande appassionato di storia.

Josep P. Saurur viveva fuori paese in un edificio a forma di torre adiacente ad una quitanda famosa soprattutto per il vino. Mi recai là.

Don Pirofilo Saurur, assiso ad un tavolo, il capo tra le mani, lo sguardo meditabondo e perso nel vuoto, aveva davanti a sé un bicchiere mezzo pieno ed una bottiglia mezza vuota. Mi avvicinai senza far rumore e feci portare due brocche di vino. Ne versai un po' a don Pirofilo. All'allegro scroscio che ne seguì Josep Pirofilo Saurur si riscosse dicendo: " oh... qual buon vento..." Ed io a lui: "Era tempo che c'incontrassimo Mastro Pirofilo!"

In effetti i miei incontri con don Pirofilo erano sempre stati fuggevoli e quella era la prima volta che avevo l'opportunità di parlare con lui in tutta calma. Trasse repentinamente, ma non senza una certa eleganza, da sotto il tavolo una cartella di medie dimensioni, la aprì e mi porse un foglio.

Vi era tracciato un disegno che raffigurava una grossa chiocciola. Guardando più attentamente ebbi modo di notare che aveva la forma della Rocca di Quepas, il corpo era formato da alcune case stilizzate e la testa coi cornini era costituita dall'imponente Duomo voluto da Re Riccardo.

"Ecco Quepas! " disse. "E i Quepalè non sono altro che miseri vermi cornuti!" soggiunse con amarezza, più parlando per sé che al mio indirizzo. Alzò il suo bicchiere e sorseggiò meditabondo. Era piuttosto alticcio e lo misi in guardia sul fatto che il boccale avrebbe potuto bersi lui e non viceversa...ma non mi badò punto. Nonostante gli occhi gli brillassero oltremodo ciò non gli impediva di portare a segno i suoi implacabili affondi.

Pensai di approfittare dell'occasione e di avvicinarmi per quanto possibile allo scopo della mia visita. Incurante di ciò, don Pirofilo attaccò con una delle sue solite tirate.
"Lo disse pure l'Immortale Bardo - il Poeta Zappettatore -, che i Quepalè sono votati alla mediocrità anche se innegabilmente, aggiungo io" e calcò sulla parola aggiungo, "cercano in ogni modo di distinguersi... E' noto a tutti che i Quepalè per sorbire il brodo non usano il cucchiaio... ma bensì il coltello! Quando abbisognò un caposquadra ai Regi Netturbini fummo costretti ad importarlo dalla vicina Castelmalo perché imbecilli così grossi tra noi non allignavano... e di questo passo potrei continuare. Un Eccelso, però, lo possiamo vantare" qui i suoi occhi si illuminarono mostrando vampate luciferine. "L'Eccelso Architetto Nazario Gullottis: l'uomo che fece Quepas come mai era stata, complice la sua originale tecnica di restauro volta più alla distruzione che al recupero invece che restituirci la gloriosa antichità ci donò il pesante afflato del Postmoderno" e scoppiò in un pianto dirotto e profondo, un pianto senza speranza né remissione.

Cercai di scuoterlo e di consolarlo mescendo altro liquor di Bacco e fu lì che trovai lo spiraglio che cercavo. "Don Pirofilo" sussurrai con voce suadente. "Illuminatemi dunque sul motto dello stemma di Quepas...". Don Pirofilo mi strappò letteralmente le parole di bocca "Follia Illuminatio Gentis!" ripeté diverse volte con veemenza prima di procedere alla disamina. "E' un faro, un'apocope per tutta l'Umanità."
"Scusate Maestro" interloquii. "In che senso "apocope"?"
"In senso figurato" spiegò calmandosi alquanto. "Nel senso che la frase, per intero, anticamente così suonava: Follia Illuminatio Gentis Stultorumque Populique Quepasensis abbreviato in: F.I.G.S.Q.P.Q.Q. poi ridotto alla forma nota in quanto cacofonico. Cioè - qui il suo sguardo si illuminò - ...la follia è la luce delle genti, degli stolti, del popolo di Quepas dove gentisè a significare i notabili, gli amministratori e tutti coloro che hanno l'onore e l'onere di dirigere e governare la nostra comunità. Così sentenziò Re Riccardo il Grande quando insignì la città dei tre leoni azzuffanti e dei tre pesci in mare beanti significando, con araldica evidenza, il rincorrere della mera esteriorità in spregio della corposa e nutriente sostanza." Con queste poche battute don Pirofilo illuminò veramente la mia ricerca anche se qualcosa mi restava da chiarire ancora.

Mi congedai da lui e stavo guadagnando l'uscita quando la voce di don Pirofilo mi inseguì con "Ricordati di Spina, Mandralis e dell'Immortale Bardo...". Il resto della frase lo persi ma ciò che udii fu sufficiente a mettermi sulla strada giusta. Come era possibile che Spina, Mandralis ed il Poeta Zappettatore avessero voluto lasciar traccia immarcescente del loro passaggio a Quepas: l'uno con la lotta per la libertà, l'altro con un museo ed una biblioteca ed il terzo col suo Canto Omerico? Questo il nuovo quesito che aveva preso il posto dell'altro e che, come il precedente aveva iniziato a fare, con rinnovato vigore mi rodeva il cervello come un maledettissimo tarlo.

La lingua parlata a Quepas era un dialetto latino con influenze occitaniche, oitaniche, greche, arabe e castigliane, il fiorentino vi era pure parlato. I Quepalè parlavano male sia l'uno che l'altro. "Un altro segno dei tempi!" avrebbe commentato Josep Pirofilo Saurur. Troppi particolari faticavano a trovare il loro precipuo posto. L'idea che mi ero costruito, attraverso le ricerche su Quepas, vacillava pericolosamente come se le fondamenta su cui si reggeva fossero costruite sulla sabbia e non sulla solida roccia.

Un pensiero cominciò così a vagare in quel mare di indeterminatezza che era diventata la mia mente: e se investigassi sulla vita di Kronion? Il mago Kronion era un esoterista Albionico. Visse a Quepas per qualche tempo e ne fu cacciato con espresso decreto del dictator Tiranniyo Muxolli.

Alla Biblioteca Mandralis trovai un'interessante documentazione riguardante i trascorsi del mago "in territorium quepasensi". Kronion viveva in un'abbazia che s'affacciava sul lato SW della Rocca. Era circondata da piante secolari tra cui spiccava una maestosa palma. L'edificio era in rovina anche se tra le pietre che animavano il rudere pareva aleggiasse ancora la presenza del Mago Kronion.

Nei documenti da me consultati era descritto il fatto che aveva spinto Kronion a stabilirsi a Quepas, definito come una circostanza fatale, si raccontava anche della famosa visione di cui era stato oggetto e dell'ancor più famosa passeggiata.

Una notte Kronion passeggiava per le stradine della città medievale quando all'altezza di Rua des Carboniers intravvide una ripida stradina -ancor oggi- poco illuminata. Pare avesse come percepito un forte richiamo a recarsi in quella direzione. Seguendo la percezione il Mago si immise nella stradina. La sua attenzione fu attratta da un vicolo particolarmente stretto e lungo. Un arco molto alto ed anch'esso stretto ne consentiva il transito ed il conseguente passaggio alla Calle Spina che era parallela a Rua des Carboniers.

Il vicolo era in pendenza e peggio illuminato della stradina ma Kronion vi si inoltrò ugualmente con passo sicuro. Subito gli parve di aver varcato una sorta di confine e di addentrarsi in un territorio completamente sconosciuto i cui limiti reali gli sfuggivano in toto. Sebbene lo stretto vicolo misurasse all'incirca ottanta passi in lunghezza, anche se all'entrata sembrava notevolmente più lungo, in larghezza non ne misurava più di tre e l'altezza non pareva calcolabile. Kronion vi perse la cognizione del tempo e vi trascorse circa un paio d'ore prima che potesse guadagnarne l'uscita.

I muri erano molto sporchi e la pittura bianca, in origine data anche sul selciato, ora aveva assunto un colore giallo-grigiastro che sembrava avvolgere completamente l'incauto passante come dentro una sconfinata nube di tetraggine. Questa sorta di nube pareva palpitasse e atresì pareva che uno strano essere incorporeo vi alitasse, sonnecchiasse, dimorasse.

Circa a metà del vicolo senza nome Kronion si arrestò. La sua mente, più lucida, dove aveva incontrato in precedenza quella cosa? Dove aveva percepito lo strano odore che ora sottilmente pareva solleticargli le nari? Era famoso Kronion per il suo straordinario olfatto sia in senso fisico che metaforico. Era proprio come il luogo descritto nella terrificante visione avuta dietro le Dogane Vecchie tra l'ingresso posteriore del giardinetto e gli sporchi scalini che conducevano in Rua d'Anjou ou d'Epagne.

Si trovava quindi faccia a faccia - o è meglio dire corpo a corpo- con l'essere che forse ne era stato l'autore: il Male in persona. Trattavasi più propriamente di una forza psichica, un'essenza, un essere ricettacolo di malvagità allo stato puro che l'osservava sonnacchioso con occhi abissalmente torbidi e circonfusi di una sottile luminescenza: il lato seducente del Male. Represse la sensazione di ribrezzo che gli stava attanagliando il cuore perché - intuì rapido- era di ciò che si nutriva. La sua mente e la sua anima vacillarono per un istante. Gli parve che il peso della malvagità di secoli se non di millenni o che altro... lo stesse per comprimere al suolo.

In quel preciso tratto il vicolo era aperto verso l'alto. Per quella volta le bianche colombe di Ishtar, col loro tranquillo volteggiare, erano riuscite a destare la coscienza ormai assopita di Kronion impedendo che egli stesso diventasse l'ennesima vittima della creatura. Subito Kronion si riprese e con passo debole e vacillante riuscì a guadagnare l'uscita. L'ennesimo incubo era cessato. Coi piedi saldamente ancorati in Calle Spina vide che l'anonimo vicolo aveva riassunto il tranquillo aspetto sonnacchioso che da sempre lo distingueva. Fece pochi passi in direzione del mare, in cuor suo ringraziando la benevolenza della Dea. All'incrocio con Rua des Carboniers, più corta di Calle Spina e con essa comunicante per mezzo di uno slargo nella sua parte terminale, il suo sguardo si infisse in quello di un'icona che, trionfante, pareva squadrarlo dall'alto dell'edicola in cui era stata posta.

L'icona raffigurava in alto il Pantocrator nel suo cielo di smeraldo, azzurro e rubino ed in basso San Josafat, raffigurato di profilo e con la doppia scure sulla spalla. Dunque non aveva sognato: non erano state né una visione né un incubo. L'icona, da tempo immemore, stava a guardia dell'essere sonnacchioso vegliando e badando a chè nessuno mai potesse turbare quel sonno provocando un inopportuno risveglio. La visione avuta dietro le Dogane Vecchie altro non era che uno dei tanti sogni della creatura che, impercettibilmente, chiamava la gente a sé facendo in continuazione nuovi adepti. Per quella volta Kronion era stato Risparmiato!

Con queste parole terminava uno degli scritti da me consultato. Il volume, in stile apocalittico, narrava le vicissitudini mistiche del Mago. Dal testo, un manoscritto ampiamente decorato con immagini allegoriche, mancavano parecchie pagine. Verso la fine pesanti strappi ne avevano asportato almeno dodici fogli. Nella lacuna forse stava la risposta ad una domanda che mi era stata suggerita dalla lettura: ci fu uno strascico di questa esperienza nella vita di Kronion? O meglio: Kronion dovette di nuovo cimentarsi colla misteriosa creatura? Queste domande ed i corollari che ne scaturirono mi portarono ad una netta svolta nella mia ricerca.

Cosa legava realmente Quepas alla passeggiata? Come si poteva essere certi dei fatti narrati? L'intera faccenda si drappeggiava nelle vesti dell'inquietudine. Per il momento pensai di lasciar perdere. La stanchezza stava per avere il sopravvento sulle mie esauste membra. Decisi di tornare alla quitanda dove avevo incontrato don Pirofilo e di cercarvi un improvvisato alloggio. Fino ad allora non avevo volutamente mai dimorato nel territorio di Quepas, cinto dai resti di titaniche mura, né lo volevo ora. La quitanda era al tempo stesso prossima e lontana. Questo particolare mi allettava dopo le a dir poco straordinarie letture fatte alla Biblioteca Mandralis.

Il cammino dalla città medievale alla quitanda non fu agevole per me. Appena vi misi piede presi in fretta una camera e mi ci feci accompagnare. Mi gettai sul letto con tutti i vestiti addosso, non degnai la stanza di uno sguardo. Mi addormentai profondamente. Il sonno fu molto travagliato. Feci due sogni. Nel primo sognai don Pirofilo che commentava il fatto della costruzione della città nuova sul sito di una millenaria necropoli preistorica e concludeva la sua orazione col fatidico: "Follia Illuminatio Gentis: F.I.G.S.Q.P.Q.Q.". Tuttora non riesco a capire come avesse potuto fare a pronunciare la sigla che abbrevia il motto lungo.

Il secondo sogno fu molto più travagliato. Tempeste di mare mi travolgevano in continuazione sbatacchiandomi a più non posso. Nomi martellanti mi rintronavano nella mente: Quepas - Kronion - il Male e viceversa. Questi tre nomi si rincorrevano e si incrociavano a perdifiato mischiando e scambiando lettere e sillabe tra di loro originando suoni e strida di una cacofonia unica. Ciò mi provocò un intenso dolore alla testa e ad ogni singola fibra nervosa. All'improvviso tutto questo fracasso cessò. Mi trovavo ai piedi della rocca dove era sito il rudere dell'abbazia di Kronion. Vedevo la creatura in forma di nube giallo-grigiastra che alitava tuttintorno: tutto pervadendo di nauseabondo odore.

Un paese cominciò lentamente a prendere forma: era Quepas. Microgasteropodi di origine sconosciuta si indaffaravano per le oscure viuzze: erano i Quepalè. La "creatura" sozzamente ghignava e ruttava, vomitava fiumi di ignoranza ed ignavia che sommergevano la base della Rocca. Alle mie spalle sentii un lieve passo. In sogno mi girai e vidi Rama il Guerriero, l'ottava Avatar di Vishnoo, che tendeva il suo arco. Muto lo guardai ed egli me lo porse. Afferrai l'arco. Sul dorso, ben visibile dalla mia posizione, stava incisa una parola. La scritta pareva in sanscrito. Mi sforzavo di leggere e di capire ma senza venirne a capo. Rama il Guerriero venne in mio soccorso porgendomi una grande freccia. Alluse con lo sguardo alla parola incisa sull'arco e disse: "Omeopax".

La freccia partì in direzione della creatura immonda che, colpita, si nebulizzò autorisucchiandosi e comprimendosi sul fondo della bottiglia prontamente aperta e tempestivamente richiusa dal Poeta Zappettatore (da dove era sbucato? Mistero dei sogni). Omeopaxi significava conoscenza.

Dopo non so quante ore mi svegliai. L'aria profumava di zàgara e nelle orecchie avevo il suono del mare. Uscii dalla quitanda e guardai in direzione di Quepas: niente. Vidi soltanto che la Rocca era diventata un'isola circondata dal mare di smeraldo. Mi girai. Al mio fianco trovai don Josep P. Saurur. Tutto allegro e sorridente don Pirofilo mi porse un boccale colmo di liquido rubino. Ammiccando mi disse: "Hai visto che funziona?!".

 

 

   
    ¬ INVIA UN COMMENTO    
www.isogninelcassetto.it è un dominio registrato - update: 25/08/2010
© nome e logo depositati - sono vietati l'utilizzo e la duplicazione senza autorizzazione degli aventi diritto
sito amatoriale senza scopi di lucro, autofinanziato e autogestito in modo non periodico