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  Palma Piccerillo
  Un urlo nel silenzio
Racconto [31]

[I racconti dell'anima]

     
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Aveva perduto il proprio genitore nell’età adolescenziale e si era trovato,come un piccolo ometto, a far compagnia alla mamma schizofrenica.
La difendeva e cercava di accettare quelle sue “piccole stanezze”perché per lui, lei era la guida di quella famiglia infranta...
Non potè continuare gli studi,per motivi economici, e dovette imparare mille mestieri perché adesso lui era l’uomo di casa e non poteva permettersi di vivere la sua giovane età.
Fu sfruttato e malpagato, ma riusciva a sopportarne il peso, senza farsi mai capire dalla propria mamma. Anzi, quando rientrava,la sera stanco, con la schiena a pezzi,le faceva un sorriso fino alle orecchie e, abbracciandola, le sussurrava: ”Quanto mi sei mancata, mamma”.
Lei continuava a fare le sue cose, senza dar retta a quell’essere così indifeso,a volte lo spostava col braccio, come di chi ha fastidio anche del contatto umano e gli rispondeva glaciale:”La cena è sul tavolo,io vado a dormire...”.
Lo lasciava lì, tutto solo,davanti a una tavola mesta ed una cena raffreddata e “senza sapore”.
Quante volte avrà pianto davanti a quel piatto bianco, quanti bocconi amari avrà ingoiato nell’arco della sua vita,io mi domando e lo immagino, nel suo lettino, raggomitolato su se stesso,per trovare un tepore ed un calore mai avuto.
Finalmente la fortuna sembrò arridergli; aveva trovato un buon lavoro,una buona paga, un bravo datore di lavoro.
Si stancava ma tornava a casa più sereno,perché la paga era aumentata e poteva godere di ogni diritto lavorativo,quindi cominciò a sentirsi “grande”, nonostante i suoi teneri vent’anni.
Aveva iniziato a seguire la moda del tempo,con gusto e sobrietà, frequentava le sale da ballo e scoprì di avere “il ballo nel sangue”, ma anche le sue qualità canore erano ottime,tanto che gli amici, spesso, gli proponevano di cantare durante le loro feste di quartiere.
Remo era proprio felice:di giorno lavorava e di sera cantava e ballava.
Una sera,ritornando da una sua serata goliardica, ebbe modo di osservare che, ad una finestra, c’era una giovane donna a ricamare.
Questa se ne stava con la testa china e col lenzuolo in mano,a fare tanti ghirigori.Lui non potè fare a meno di notare la bellezza del suo collo da cigno, l’acconciatura dei suoi splendidi capelli neri,il profilo del suo naso sottile e quelle labbra così carnose...”è mia”, pensò subito fra sé e, senza nessuna remora,picchiettò a quella finestra illuminata.
La giovane donna alzò lo sguardo, spaventata, e, per la paura, gli chiuse in faccia gli sportelli della finestra.
Remo rimase in attesa,pensando fra sé: ”Adesso mi apre”,ma dall’interno della casa, sentì risuonare una voce possente: ”Elvira,vai subito a dormire!”.
“Elvira, si chiama, che dolce nome per colei che sarà la mia giovane sposa”, e, con la testa confusa e sognante, quella sera ritornò a casa, cantando e danzando.
La madre dormiva, in un sonno profondo, perché il dottore le aveva consigliato dei farmaci efficaci e, quindi, Remo, seduto per terra, ai piedi del letto, accanto alla mamma, le diceva felice: ”Lo sai, mamma, ho conosciuto un tesoro di donna. Ha un viso stupendo, da ritratto per pittori, sembra fatto col pennello ed io sento di amarla come non mai...”. Ad ascoltarlo c’erano solo le cicale e i vecchi “dagherrotipi” sul comò della mamma.

L’indomani Elvira ebbe una visita imprevista, dal ritorno di una uscita fatta con la mamma; a parlare, nel salone, con il padre, c’era uno strano ragazzo: bello, educato, fine nel parlare, ma ahimè, con quei pantaloni alla “zuava”, che cosa ridicola e fuori luogo.
Ad Elvira veniva da ridere e, presentandosi, abbassò lo sguardo per non imbarazzarlo col suo riso stretto fra i denti.
Remo un po’ si infastidì, capendo il motivo di quella risatina e quindi, cercava, mentre parlava, di tirarsi giù i pantaloni.
Eppure la sarta gli aveva assicurato che, con quelli indosso, avrebbe fatto impazzire anche Sofia Loren, ma ad Elvira proprio non piacevano e lo continuava a fissare come se fosse un extraterrestre.
Il padre li fece accomodare sul divano e, rivolgendosi alla figlia, disse con voce informale: ”Questo giovane, mia cara, è venuto a chiedere la tua mano, se tu sei d’accordo, gradirei che vi frequentaste per un po’ di tempo e poi puoi decidere se maritarti oppure no”. Quindi, con mille ossequi, gli fu offerto del rosolio fatto in casa, dei biscotti al burro e si chiacchierò per conoscersi meglio.
La serata per Remo fu emozionante a tal punto che, quando ritornò a casa sua, costrinse la mamma a svegliarsi per poterle raccontare tutto dal principio e poterle decantare tutte le qualità di Elvira.
La mamma ascoltò senza battere ciglio e più apatica del solito, gli disse: ”Hai finito? Adesso posso tornare a dormire?”.
Per Elvira, la situazione fu diversa; quando Remo si apprestò ad accomiatarsi, lei, senza sapere il motivo, gli sfiorò la mano come per dirgli: ”Non te ne andare...”, ma, per la vergogna dell’audacia dimostrata, non osò guardarlo negli occhi. Dopo lo raccontò alla mamma, e ad ogni parola le sue guance brillavano di due rossi stupendi. Si era invaghita anche lei del suo giovane spasimante...
Le sere successive furono più intense che mai: Remo l’andava a trovare più spesso ed ogni volta era un regalo diverso che Elvira riceveva, un porta-pillole, una spilla o una semplice rosa. Ad ogni regalo corrispondeva una carezza lieve sulla mano di Elvira...
Una sera Remo fu più audace che mai: sull’uscio le strappò un bacio a fior di labbra.

Come un uccello spalanca le sue piccole alette, quando ha imparato a volare, così Remo, quella sera, saltava per strada come un matto, gridando alle finestre socchiuse: ”Io l’amo, io l’amo, io l’amo e voglio sposarla”.
Quando glielo propose, temendo la risposta, non la guardò negli occhi ma lei, sicura di sé, gli troncò la domanda, rispondendo già: ”Sì”.
Le nozze furono semplici, com’era la vita di quei tempi, e si festeggiarono nella corte della casa di Elvira.
Si mangiò allo sbafo, si danzò senza posa, ma Remo cercò di rimanere lucido perché non voleva fare nessuna figura con Elvira.
Quella notte che cosa provò Remo quando la vide uscire dal bagno con una camicia da notte ricamata da lei.
Sembrava una ancella degli dei, con i lunghi capelli slegati,con le guance arrossite per il pudore.
Lui le disse,abbracciandola: ”Sarò il tuo cavaliere, ti difenderò per l’eternità. Sarò dolcissimo e delicato perché tu ne abbia un bel ricordo”. Elvira era vergine e aveva preparato un fazzoletto bianco perché, a quell’epoca, si doveva mostrare alla mamma dello sposo la “prova del fazzoletto”.
Quando Remo lo vide, le disse: ”A mia madre, non devi mostrare nulla, perché sono io il tuo sposo”.
Con le lacrime agli occhi, Elvira si sdraiò, come se stesse affrontando un martirio...
Remo la strinse a sé e le fece passare tutte le paure...
Da questa bella coppia nacquero quattro figli: uno più bello dell’altro, due maschi e due femmine, sani e forti, come lo era la mamma.
Crebbero con una semplicità ed un amore profondo che tutti, al paese, glieli invidiavano.
Poi, più grandicelli, ognuno prese la sua strada: chi come pittore, l’altro impiegato statale e la femmina in una fabbrichetta.

Ognuno si dava da fare per mandare avanti la famiglia che, nel suo piccolo,poteva permettersi di fare acquisti e di avere ”piccoli” lussi: la prima televisione pagata a rate, la lavatrice e la prima automobile, che però non guidava Remo, perché a lui piaceva andare in bicicletta, che lo faceva smaltire e lo teneva sempre allenato.
Anche al lavoro andava in bici nonostante i figli gli dicessero di stare attento perché quella era una strada pericolosa.
Quando lo conobbi era così: magro, con un fisico asciuttissimo, capelli grigi che non tingeva perché diceva: ”Non voglio sembrare finto, io sono così come mi vedi”.
Neanche all’Elvira faceva tingere i capelli, né le faceva mettere il rossetto perché lo riteneva volgare e poi mi ripeteva: ”La bellezza di una donna si vede al mattino, quando si sveglia...”.
Quando mi vide la prima volta, camminare per strada accanto ad uno dei suoi figlioli, non poté fare a meno di seguirci, bloccandoci con gentilezza e invitandoci a prendere qualcosa al bar.
Il figlio con lo sguardo sembrava dirgli: ”Ti prego, papà, lasciaci soli...”, ma per non essere scortese gli sussurrò: ”Forse la signorina non vuole...”. Ma io non gli feci finire la frase ed accettai: ”Perché no? Avevo proprio bisogno di qualcosa da bere”.
Mi osservò tutto il tempo, come mi muovevo, come mi esprimevo, e si chiedeva se fossi di buona famiglia.
Più volte, lo anticipai nelle risposte, più volte gli rispondevo con lo sguardo, facendogli un sorriso sornione...
Fu la prima persona che mi teneva testa e forse la prima che mi stimava davvero...
Mi è stato raccontato poi che, quella sera, tornò a casa, saltando e gridando alla moglie :”Questa è tosta, proprio come piace a me. Ha uno sguardo troppo intelligente, ti capisce al volo e sembra che ti legga dentro,penso che ti piacerà”. E riempì l’Elvira di mille chiacchiere per decantarle le mie virtù: ”Nostro figlio è proprio fortunato, speriamo che non se la faccia scappare”.

Quando lo vedevo andare in bici, pensavo: ”Remo non muore se non lo ammazzano...”.
Mi piaceva il suo modo di parlare, sempre rispettoso e un po’ pudico. Le rare volte che litigava con la moglie cercava in me la sua complice, ma io, per non inimicarmi nessuno, gli rispondevo: ”Tua moglie ha ragione per quell’aspetto e tu hai ragione per quest’altro”. Mi guardava e, sorridendomi, mi confidava: ”Sei una figlia di buona donna e perciò mi piaci”.
Si vestiva la domenica mattina con l’abito da cerimonia perché per lui, quel giorno della settimana, era sacro e si agghindava come un damerino. Poi andava in giro e, all’ora di pranzo, era pronto per gustare, con la famiglia, i buoni manicaretti preparati dall’Elvira.
Spesse volte ero invitata a quella mensa, come ospite d’onore e lui si divertiva a punzecchiarmi perché gli piaceva come ragionavo.
L’Elvira si preoccupava se io sapessi stirare, o sapessi cucinare, dato che il proprio figliolo lei lo aveva abituato troppo bene...
Io le rispondevo con educazione: ”Ho sempre studiato e questo non mi ha permesso di imparare le cose domestiche, ma ho tanta buona volontà e, con l’aiuto di mia suocera tutto mi potrebbe diventare più semplice”, e guardavo lui mentre glieli dicevo tanto che lui,come un complice, mi sorrideva...
L’avevo affondata la signora Elvira ma l’avevo anche molto lusingata, tanto che lei, credendo di insegnarmi le cose che solo lei sapeva fare, non faceva altro che cadere nel mio sporco gioco.
Un giorno però l’affrontai e lui non poté difendermi, era in fondo il marito e non poteva parteggiare per me in modo così vistoso...
Le dissi quello che pensavo: ”Se ho studiato non significa che sia deficiente solo perché non so cucinare. Nessuno ha mai imparato prima ancora di sperimentare, poi perché dovrei essere io a cucinare? Lo potrebbe fare anche suo figlio, se vuole mangiare!”.
Lei si inorridì, non sapeva che dire, era frastornata e, guardando il marito, gli disse: ”Ci siamo proprio sbagliati...”.

Per un lungo periodo non frequentai più quella casa, ma, giuro, che mi mancavano tutti, forse fra tutti...Remo.
Mi fecero sapere, tramite amici, che la mamma di Remo era morta e questo mi dispiacque molto perché quella donna era morta come era vissuta: senza clamori.
Andai al funerale, forse nella speranza di rivederli e così fu.
Quando ci rivedemmo non servirono le parole, le nostre lacrime parlavano da sole...
Mi riappacificai con la famiglia e convolai a nozze col loro figliolo.
Quella sera, la nostra sera, gli dissi dura e decisa: ”Non ti azzardare a portare a tua madre la prova del fazzoletto che ti lascio adesso!”.
Lui mi sorrise come per dirmi: ”Son finiti quei tempi, ora pensiamo a noi due”.
Vennero alla luce tre bellissimi bambini e, rabbia per me, nessuno mi somigliava; anzi la femmina era “tutta sua nonna”.
Passarono gli anni e Remo andò in pensione; quale gioia per lui potersi godere i suoi nipoti, li portava al parco, in bicicletta, gli comprava ogni sorta di dolciumi e, se incontrava qualche amico, era lesto a dirgli, con una nota di vanto nella voce: ”Sono i miei gioielli”.
Com’era felice quando decidevamo di festeggiare con lui e l’Elvira ogni festività, si dava da fare per farci mille sorprese e si faceva trovare sempre “lindo e pinto”.
Quell’ultimo Natale, con lui, non lo potrò più dimenticare...
Eravamo arrivati pieni di pacchi e pacchetti e tanti doni per tutti, con i ragazzi diventati più grandi.
Si respirava un’atmosfera di festa come non mai.
L’Elvira aveva preparato ogni sorta di manicaretto e di dolci natalizi, sapendo che i miei figli ci andavano matti.
Quelle sere mangiammo a ufo ma qualcosa di strano si respirava nell’aria...

Fui io la prima ad accorgermi che Remo non stava bene ,chiudeva, sbattendoli in continuazione, gli occhi.
Se li strofinava, se li chiudeva come se non volesse più vedere...
Era diventato nervosissimo, non sopportava più il chiacchiericcio dei bambini, si alzava in continuazione e, cosa che mi ha fatto scattare il sospetto, non si era agghindato a festa...
“C’è qualcosa che non va”, dissi a mio marito, ”tuo padre non è lo stesso, ha uno sguardo senza luce, sembra un morto che cammina... Non vedi anche tu che non sembra felice? Ho l’impressione che abbia perso la gioia di vivere...”.
Mi rimproverò mio marito, dicendomi che vivevo di fantasticherie psicologiche e che per lui era tutto ok.
Ne parlai con mia suocera ma anche per lei non c’era stato nulla che avesse potuto causargli questo malumore.
Le risposi che non sempre chi è depresso lo fa capire e non sempre chi ha questo tipo di calo dell’umore desidera guarire...
Ricordai all’Elvira che la mamma di Remo fosse “schizzata” e che questo non andava sottovalutato, ma feci solo la pessima figura di sentirmi dire di stare tranquilla...
Quella notte Remo non riusciva a dormire, aveva fatto dei sogni brutti, si girava e rigirava nel letto.
Si alzò per prendere un po’ d’aria e, istintivamente, si accese una sigaretta, in camera da letto (cosa che non aveva fatto mai) e si incantò a guardare l’Elvira; la rivide dietro la finestra a ricamare e, sorridendo, gli cadde l’intera cenere per terra, accanto a lei...
L’indomani l’Elvira si alzò presto per preparare le colazioni, allungò la gamba nel letto per cercare il marito e, non trovatolo, non se ne preoccupò perché anche altre volte Remo scendeva prima di lei, per farle una sorpresa.
Sorrise Elvira mentre si alzò dal letto ed uscì sul balcone dove notò una finestra aperta...

“Ma come?, si domandò, ”Eppure ieri sera mi ricordo di averla sprangata per bene. Vabbè, adesso la chiudo”; non riuscì neanche a terminare la frase che la coda del suo occhio intravide una sagoma scura per terra...
Si sporse dalla finestra perché nel buio dell’alba non riusciva a distinguere bene le forme e, quando ebbe intuito l’amara verità, si sentì squarciare l’aria il suo urlo nel silenzio...

“I racconti dell’anima” sono il risultato di una sofferenza interiore, dove, dopo anni di ripiegamenti e di mascheramenti, è straripata senza vergogna. Lo stile è semplice e lineare perché volutamente ”umile”, come erano le “umili scene di vita quotidiana” di G. Gozzano. Essi sono dunque una testimonianza di vita prima che di letteratura; ogni racconto appare come un momento chiave, un momento simbolo di una situazione, e pur sorgendo in un contesto di situazioni realistiche acquista valore di emblema morale ed esprime quei motivi psicologici che possono essere usati per corroborare un’interpretazione di uno spaccato della nostra società, oggi. [N.d.A.]

 

   
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