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  Alessio Masala
  Un giorno fortunato
Racconto [9]

 

     
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ANCORA un minuto e ce l'avrei fatta. Invece nulla da fare. Avevo perso il treno per Vico Giudenco. Niente più prima carrozza dell'Intercity, niente prima fila, niente prima classe. Durante il veloce tragitto verso la stazione, ansimante e sudato come un bagnante in spiaggia sotto il sole di agosto, avevo sperato in ciò che solitamente accade da queste parti, e cioè che il treno partisse in ritardo. Speranza vana. Per uno strano gioco del destino, stavolta il diretto era partito in perfetto orario (anzi, addirittura con due minuti di anticipo) lasciandomi là ad osservare la sua coda mentre pian piano si rimpiccioliva davanti ai miei occhi.
Rimasi per qualche minuto fermo ad ammirare quell'enorme serpentone metallico allontanarsi in mezzo al gioco di colori del tramonto: il rosso dei riflessi che circondavano la pallina gialla del sole che cominciava a diventare fioca e tutt'intorno il blu che diventava viola. Carino davvero.
Carino un corno! Ripreso il controllo delle mie facoltà mentali ricordai che quel maledetto treno mi avrebbe portato a una nottata di fuoco da Maria, a più di 200 chilometri da qua. E lei non l'avrebbe presa bene. L'ultima volta che avevamo potuto vederci risaliva a più di venti giorni fa, e da quando mi avevano trasferito per lavoro in città, complice la distanza, i nostri incontri si facevano sempre più radi.
La mia cronica abitudine ad arrivare a ogni tipo di appuntamento sempre all'ultimo momento utile, se non addirittura in ritardo, stavolta mi fu fatale. Mi creavo sempre mille cose da fare prima di uscire, cercavo sempre di non creare tempi morti entrando in simbiosi con le lancette dell'orologio che avanzavano. Odiavo aspettare gli altri e quindi mi sforzavo di non arrivare in anticipo, e così facendo arrivavo quasi sempre in ritardo.
- Sei uno stronzo, ecco cosa sei! - tuonò Maria dall'altra parte della cornetta - La verità è che non te ne frega nulla - rincarò la dose - eppure lo sai che il sabato l'ultimo treno parte alle otto!
I miei timidi monosillabi di scuse mentre sbraitava non bastarono a interrompere il suo furore, che proseguì per altri due lunghissimi minuti e smise solo dopo il brusco "click" del cellulare che chiudeva la comunicazione.
Era fuori di sé. Forse questo era stato un decisivo colpo inferto al nostro già traballante rapporto. La distanza non aiutava, evidentemente. E mentre lei magari giaceva piangente nel letto sapendo che le sue voglie non sarebbero state soddisfatte neppure per quella notte, io in cuor mio quasi mi sentivo felice per quel contrattempo.
A metà tra il preoccupato e il sollevato mi riavviai verso casa, mentre ormai il sole si buttava dietro l'orizzonte per il proprio pisolino quotidiano.

Quella notte feci un sogno strano. Sognai Maria, ferma davanti al mio letto, che mi fissava in modo truce e quasi violento. Non faceva nulla e mi fissava in modo sinistro, quasi come un gatto che rimira la preda prima dell'attacco; metà del suo braccio era dietro il corpo, come a voler nascondere qualcosa che avesse nella mano. Rabbrividii. Aveva un coltello? Una pistola? Voleva forse uccidermi?
A quel punto sentii la campana della morte che suonava incessantemente e mi avvertiva che era arrivata la mia ora.
No, era la sveglia. Me la ero dimenticata accesa alle 6.45, come nei giorni in cui andavo a lavoro.
Che strano sogno. Maria a volte era un po' irruenta nelle sue scenate di gelosia, ma non diventerebbe mai un'assassina. Forse.
Ma no, che pensieri stupidi! E' vero che si era fissata circa una mia presunta tresca con Silvana, la procace barista del "Caffè Vespucci", ma non mi minaccerebbe mai con un coltello.
Si, era solo uno stupido sogno. Non avevo di che preoccuparmi. Eppure non smettevo di pensare a quale fosse il suo significato inconscio.

Gli impegni di quella domenica mi fecero comunque un po' dimenticare l'accaduto: corsetta nel parco la mattina, pranzo veloce e stadio nel pomeriggio; poi in serata eccomi al bar coi soliti amici, a parlare della doppietta di Rimbaudo e dell'espulsione del brasiliano Jordao.
Poco prima di rincasare per cena mi cadde l'occhio su uno dei quotidiani che stavano sul bancone del bar. Vidi foto di lamiere fumanti e rotaie divelte. Lessi.  
"Tragico scontro fra treni a Frattaglia. E' strage".
Non può essere, Frattaglia è la fermata prima di Vico Giudenco. Ma la lettura successiva non lasciò dubbi: "Fatale errore nel cambio rotaia in tarda notte, i morti sono ventisette". Era il mio treno. Il primo vagone completamente distrutto. Sarei morto si, ma in prima classe.
Non sapevo se piangere o urlare di gioia per aver ancora salva la vita. Prontamente ripensai al sogno e ai suoi presunti significati sinistri. Ecco: il coltello era nascosto e non visibile. Ora mi era tutto un po' più chiaro, non ero io a dover morire.
Non avevo addosso l'immancabile cellulare, quindi dovevo tornare subito a casa per chiamare Maria e dirle dell'accaduto.
In tutta velocità percorsi gli oltre milleduecento metri che mi separavano dal bar alla mia abitazione.
Appena arrivato sotto casa vidi la sua macchina. Stranamente non era parcheggiata al solito posto, ma in modo piuttosto sbilenco e quasi al bordo della strada. Aveva le mie chiavi.
L'altra stranezza era che dalla finestra del soggiorno che dava sulla strada principale non si vedeva nessuna luce accesa. Come mai?
Per un po' ripensai al sogno, ancora lui! Forse Maria veniva a completare l'opera lasciata interrotta dal treno? Stavo diventando paranoico.
Mentre salivo gli scalini a due a due, quasi all'altezza del primo piano - quello del mio appartamento - si spense la luce a tempo della scala e nella foga della corsa incespicai e caddi. Proprio in quel momento riconobbi il rumore del mio portone, nel suo cigolio quando chiude.
- Maria, sei tu? - urlai, senza risposta.
Poi mi rialzai e, con la mia vista nel buio totale, cercai a tastoni l'interruttore ma venni subito travolto da una figura buia - Maria!! - che con un una spinta mi fece ricadere verso le scale. Riuscii giusto in tempo ad aggrapparmi alla ringhiera delle scale, mentre l'ombra buia di Maria si avvicinava minacciosamente verso di me con un coltello - quello si, luccicava nel buio! - in mano. Oddio, il coltello!
Mi rialzai ma non riuscii a vedere nulla, la luce appena spenta aveva fatto piombare la mia vista nel buio totale.
- Maria, fermati! - gemetti, ma era chiaro che stavo soccombendo.
Mi faceva male la gamba. Prima che mi rialzassi e reagissi, piombò su di me, ed entrambi ruzzolammo per le scale, fino al vertice della prima rampa di scale. La flebile luce dei lampioni esterni del portone esterno cominciò a illuminare la mia vista, mentre Maria, coi lunghi capelli sciolti che mi sfioravano il viso, stava sopra di me. Stava per infliggere il colpo letale sulle mie rassegnate membra.
Mi ero salvato dal deragliamento, stavo per essere ucciso dalla mia donna. Quando il destino decide, non c'è nulla che possa fargli cambiare idea. Chiusi gli occhi e mi preparai all'epilogo. Titoli di coda.

-Fermo, mani in alto! - Due voci improvvise provenienti da dietro interruppero i miei epitaffi mentali. Erano due carabinieri. Per la seconda volta in quella giornata avevo salva la vita.
- Oddio, si! E' il capellone col coltello, è lui che mi ha rubato la macchina! - urlò subito dopo Maria, che era entrata dietro gli appuntati.

 

   
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