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Sono passati sei mesi da quando abbiamo iniziato a chattare, io e Debora. Sappiamo molte cose uno dell'altro. Ci siamo scambiati un paio di foto, il mese scorso. Io le ho mandato un'immagine a figura intera, in montagna, con l'attrezzatura e tutto quanto, una foto scattata in una giornata di sole prima di una seduta di roccia con la mia compagnia. Debora mi ha inviato invece un proprio primo piano. Quello di lei è un viso pulito, semplice, dai lineamenti non troppo marcati. Hai i capelli castani, alle spalle, leggermente ondulati. L'immagine ritrae uno sguardo vagamente severo, ma non cattivo. L'aria che accenna all'autoritario non le sta male. Debora non esce spesso di casa. Legge, si informa, naviga nel web. Ha anche la possibilità di lavorare da casa, come operatrice di call center. Il telelavoro si sposa perfettamente con la sua attitudine casalinga. Vive con il padre, che però è spesso fuori per lavoro. La madre è morta di tumore quando lei aveva quattro anni. Il padre l'ha cresciuta grazie a una badante. Ora Debora ha ventisei anni, nove meno di me. Ci siamo trovati spesso d'accordo, in diversi argomenti trattati in varie discussioni, nel forum della community alla quale siamo iscritti. Abbiamo gusti simili, per quanto riguarda la musica, la cucina, il vivere sano. Ma quando, recentemente, riprovai a formularle una domanda simile, Debora mi spiazzò, rivolgendomi un'altra domanda. Mi chiese che rapporti avessi con l'handicap. Questa varietà di botta e risposta, che era diventato un alternarsi di quesiti apparentemente senza nesso alcuno, mi scocciò parecchio. A quel punto ero pure teso, davanti allo schermo del pc; mi sentivo come urtato da una domanda messa lì tanto per cambiare argomento, mentre io mi ero appena allargato nei confronti di lei. Allora le scrissi "Facciamo a gara a chi cambia argomento in modo più originale?" Passarono dieci minuti buoni prima che mi rispondesse, pur rimanendo sempre connessa alla chat. Mi scrisse quindi che mi aveva mandato un messaggio con allegato al mio indirizzo e-mail. Entrai quindi nella mia casella di posta elettronica e scaricai l'allegato al messaggio di Debora. Allora tutto mi risultò chiaro. Mi vergognai d'essermi adirato a causa del suo apparente sorvolare su di un nostro eventuale incontro. Piuttosto, mi resi conto che se avessi saputo prima, forse la nostra amicizia non sarebbe mai nata. Ma perché?, mi chiedevo. E non sapevo rispondermi, se non con una serie di luoghi comuni superficiali, scontati, ignobili e disgustosamente distanti da ogni vago sentore di solidarietà. Ero confuso e, mi rendevo conto, avrei dovuto farmi schifo da solo. Invece, fui invaso da una buona dose di senso pratico e d'un tratto mi passò la voglia di chattare. Chiusi il browser direttamente, spensi il computer, cenai con quello che trovai in frigorifero e me ne andai a letto. Osservai il primo piano di lei, che avevo incorniciato e messo sul comodino. La mia timidezza me l'aveva fatta conoscere, attraverso la rete. Qualcos'altro mi avrebbe facilmente allontanato da lei, ne ero consapevole. Prima di coricarmi guardai ancora la foto di Debora, e pensai che una volta, davanti a essa, avevo pensato che era una ragazza bella, bella, bella. Ma l'immagine di lei sulla sedia a rotelle era più viva che mai nella mia mente, difficile da rimuovere.
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